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Cronache di un disagio collettivo

  • Immagine del redattore: Simone Marchetti
    Simone Marchetti
  • 13 dic 2023
  • Tempo di lettura: 3 min

Ci sono momenti in cui la realtà ti schiaffeggia con una tale forza da farti faticare a riprenderti. Il caso di Giulia Cecchettin è stato uno di questi. Una storia che è arrivata dritta al cuore di tutti, in un modo o nell’altro. E dentro quella storia, troppe cose mi hanno disgustato. Altre mi hanno fatto male. Profondamente.


La prima è l’orrore del gesto. Un atto vile, senza giustificazioni. Un buio che si è riversato addosso a una ragazza che sognava la vita. Non c’è niente da dire: certe azioni non appartengono all’umano, ma a qualcosa che si è lasciato corrompere fino a sprofondare in una disumanità che fa paura.


Ma a scuotermi non è stato solo il fatto in sé. È stata la consapevolezza — triste, frustrante — che quell’ossessione malata, quel senso di possesso travestito da amore, non è così raro come vorremmo pensare. Troppe storie, negli anni, mi sono passate davanti agli occhi. Storie di uomini incapaci di lasciar andare, spezzati dall’idea di non essere più amati. Uomini che confondono l’amore con il controllo, la fragilità con la pretesa, la paura dell’abbandono con il diritto di possedere. E se nella stragrande maggioranza dei casi non si arriva alla tragedia, resta comunque un dolore sottile e diffuso, come un veleno che circola silenzioso nelle vene delle relazioni.


Tempo fa, parlando proprio di questi temi con degli amici, dissi una cosa in cui credo ancora oggi: la vera forza maschile, quella autentica, non si misura nei muscoli o nei decibel della voce. La vera forza è la padronanza di sé. È la capacità di restare in piedi anche quando dentro si è in tempesta, di affrontare la delusione senza farne un’arma. Di scegliere l’amore come dono, mai come catena.


Poi c’è un altro aspetto che mi ha lasciato con l’amaro in bocca. L’accanimento mediatico. I riflettori puntati sulla sofferenza altrui come se fosse uno show, una serie da seguire episodio dopo episodio. Capisco il bisogno di informare, soprattutto quando ancora si spera. Ma quando tutto è già emerso, quando il dolore è lì, a cielo aperto… che senso ha rincorrere i familiari, forzare interviste, trasformare l’intimità del lutto in uno spettacolo? Dove abbiamo perso la bussola?


E infine, l’arena dei social. Il ruggito continuo, confuso, spesso cieco. In quelle piazze digitali, dove tutti parlano e nessuno ascolta, ho avvertito qualcosa di profondo e disturbante: rabbia. Tanta rabbia. Frustrazione, superficialità, l’incapacità di andare oltre la prima emozione, la prima frase fatta.


Ormai sembriamo automi: ognuno con il suo copione, le sue risposte preconfezionate. Se dici A, l’altro dirà B. Se provi a discutere, ti trovi davanti un muro. Non c’è spazio per la complessità, per il dubbio, per il confronto vero. Solo slogan, accuse, etichette.


E così, tutto diventa guerra. Uomini contro donne. Colpe collettive affibbiate senza distinzioni. Se sei uomo, sei colpevole. Punto. Anche se la tua vita è costruita su rispetto, dialogo, amore. Non importa. Il tuo genere ti condanna. È un meccanismo che ho già visto altrove, in altri contesti, in altri paesi. E ogni volta mi fa lo stesso effetto: un brivido lungo la schiena.


Ma sapete cosa mi spaventa davvero?


Questa spaccatura crescente. Questa sensazione che uomini e donne stiano cominciando a guardarsi come avversari. Come se stessimo smontando, pezzo dopo pezzo, il senso stesso del vivere insieme. Senza fiducia, senza ascolto, senza un linguaggio comune. È come se qualcuno avesse premuto “reset” e ci trovassimo su due binari paralleli, destinati a non incontrarsi più.


E invece abbiamo bisogno l’uno dell’altro. Non solo per generare nuove vite, ma per continuare a essere umani. Per evolverci. Per non crollare.


A volte mi sento stanco. Stanco di vivere in un mondo dove tutto è rumore. Dove i rapporti si costruiscono a colpi di like e si disfano con un messaggio visualizzato. Dove i sentimenti si consumano in chat, e la presenza fisica, lo sguardo, la parola detta a voce, sono diventati optional.


Ci sono ancora relazioni vere, lo so. Persone che si scelgono davvero, che si guardano negli occhi, che si tengono per mano nei momenti bui. Ma sono isole, e il mare attorno è in tempesta.


Non so come andrà a finire. Ma ho la sensazione che siamo in un punto basso, e che da qui si possa solo risalire. O almeno, lo spero.


Nel frattempo, chi può, chi ha cuore e lucidità, costruisca. Fuori dal rumore. Lontano dai riflettori e dalle tastiere infuocate. Con pazienza, con cura. Perché è solo lì, nella realtà dei rapporti umani autentici, che possiamo ancora trovare salvezza.

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